POMEZIA

ESPRIT YAMAK LATINA E POMEZIA

Tra Latina e Pomezia si è tenuto l’ultimo Esprit Yamak.

Abbiamo iniziato a Latina, da dove è originario Luca, una vecchia conoscenza di raduni, un vecchio amico. Sulla strada che porta a casa sua, mi racconta che Latina è la città più giovane d’Italia. A me faceva pensare piuttosto ad una piccola scatola d’alluminio. Poi mi spiega che il suo nome è cambiato nel corso della storia, prima, durante il fascismo si chiamava Littoria. La città mi è piaciuta all’istante già solo per quello, perché è la prova che puoi cancellare il passato se non sei stato tu a deciderlo.

Per iniziativa della Moveway e di Magma, un’associazione culturale, alla vigilia del week-end, è stato organizzato un incontro dibattito. Un bel momento, tranquillo, che mi ha ricordato una cosa simile fatta a Macerata. Saltiamo, ma sappiamo anche parlare e ragionare. Abbiamo parlato dell’art du déplacement, del suo impatto sociale, dell’attualità, e non è mancato quindi il tema del tentativo di furto da parte della Fig.

Un bambino, Davide, mi interpella e mi chiede che ne penso.

Si, è come chiedere a Gandhi che ne pensa di Lipton.

Sabato entriamo nel vivo. Piove, di continuo. Inizio a pensare che saranno difficili condizioni di lavoro. Era una valutazione che non teneva conto dell’entusiasmo dei partecipanti, che in buona parte conosco. Li riconosco senza problemi, nonostante le righe che appaiono qua e là sui loro volti.

Il tempo passa per tutti, anche per loro.

Amici di lunga data, alcuni che non vedevo da tempo. Gianfranco per citarne uno, ormai soldato ma sempre praticante. Viene della Puglia. Un vero amante dell’art du déplacement che lui chiamerà parkour.

Insieme a lui un esercito di pantaloni mangiati, troppo grandi, o super comodi. Dipende della prospettiva. C’è chi indossa la sua maglietta portafortuna, talmente usata che racconta senza parole una vita di salti, sudore e sana fatica. Altri vestono quella della loro associazione o gruppo, con un certo orgoglio. Non quello dell’impresa atletica o tecnica. Quello di sapere di appartenere a qualcosa di speciale. Di pulito.

Degno.

Si muovono indisturbati sotto la pioggia e il freddo, senza lamentele. Il vitale lavoro di trasmissione fatto dalle associazioni conferma, qui, la serietà del loro impegno da diversi anni. Quello che loro trasmettono nel quotidiano con l’esempio. È più accettabile seguire un’attitudine combattiva quando già la dimostra chi, poi, la richiede. Quando i fatti contano più delle sentenze ex cathedra.

Nonostante il grigio, momentaneo, si va avanti. Insomma, come nella vita di tutti giorni. Se ti fermi, se non ti rialzi, ti fai mangiare.

Se non prendi la mano tesa quando sei in fondo al buco, sparisci.

Crepi.

In questi pantaloni bucati rivedo noi all’inizio. Prima di avere un bell’aspetto pensavamo a coltivare il nostro spirito e il nostro corpo. Se è vero che il vestito non fa il praticante, è altrettanto vero che il buco non fa la rispettabilità…

Oggi, oltre ai visi segnati, tante cose sono cambiate.

Si dà un nome di gruppo senza sapere che vuol dire far gruppo. Coesione. Si gira un video per un salto, eseguito male, da un marciapiede all’altro. Video di cazzi grossi senza contenuti diffusi a manetta. Le solite cose permesse dall’abbondanza di strumenti multimediali per filmarsi, come addirittura fare degli squat rivoluzionari.

Quelli della cacca nella foresta…

Certo, queste cose hanno un impatto dannoso limitato nel tempo. Possiamo dire anche ridicolo. Provengono da persone di passaggio. Da consumatori, della loro gioventù in primo luogo.

Il vero danno proviene da una nostalgia del 1900. Sì, un certo spleen dei tempi passati risorge, a quanto pare.

Oggi un gruppo imperialista tenta di mettere le mani sulla comunità dell’Art Du Déplacement che maggior parte delle persone chiama Parkour.

Ma come è stato possibile? Hanno dovuto trovare delle persone abbastanza docili, sottomesse alle loro paure. Quella più forte, l’incertezza che promette il domani, quando come noi le ginocchia scrocchiano dopo due decenni (e passa) di scontri sul cemento.

Uno zoccolo duro di valori, tra cui l’integrità e l’etica, avrebbe impedito l’arresa alla paura. Avrebbe protetto. Ma se uno confonde etica e ortica, diventa una missione solo per Tom Cruise.

Per solidarietà ho fatto sentire la mia voce. Perché i fondatori del parkour hanno venduto il parkour alla federazione internazionale di ginnastica. Non l’Art Du Déplacement. In verità non si sono venduti solo loro, hanno svilito tutta una comunità, l’hanno sacrificata nel nome del benessere mondiale. Il solito piatto indigesto che ci servono tutti i dichiarati protettori della vera disciplina. Quella giusta e pura. Che pura non è mai stata, come spiego nel mio libro.

Credo che nessuno di noi avrebbe svenduto la sua gente, non per dignità.

Banalmente per educazione.

Però nessuno si distacca della parola parkour nonostante la porcheria! E questo mi risulta assurdo.

Chi è in pieno disaccordo, chi non accetta di essere buttato senza la minima considerazione dovrebbe andarsene e lasciarli con una scatola vuota. Ma pochi possono permetterselo. Tutta la loro comunicazione, da anni riposa sul termine parkour. Da anni sanno quanto ci sia più fumo che fuoco. I gruppi più vecchi non hanno mai potuto staccarsi da questo termine, già allora che sapevano dell’illusione.

Chi veramente si riconosce nel parkour dovrebbe seguire il suo leader storico, come si fa di solito. Probabilmente è quello che si aspettavano i colonialisti. Che i fondatori del parkour sarebbero stati seguiti, ciecamente. Anche loro stessi probabilmente. Ma quando si lascia della merda ovunque, si lasciano anche delle tracce.

E si vedono.

Ma per un ovvio motivo di convenienza si ignorano.

A parte se consideriamo il parkour come un bambino, un figlio. Se tu, suo padre, non lo cresci, lo abbandoni e lo lasci alla sua sorte per lustri, che legittimità possono avere le tue parole?

-Seguimi figliolo, so che cosa è giusto per te…

Certo. Come puoi credere che lui ti ascolterà? Non basta fare “papà entra dentro mamma”. Altri genitori si sono presi cura di lui. Lo hanno educato mentre tu eri impegnato a fare i cazzi tuoi. Peggio ancora, hai usato tuo figlio per farti un nome e su di lui ha raccontato troppe bugie. Ora i diritti su tuo figlio li devi discutere con quelli che lo hanno cresciuto.

Domenica ha piovuto di nuovo, ma niente che abbia spaventato i bravi. Ognuno con i suoi mezzi ha combattuto le difficoltà e ci siamo lasciati con la ferma intenzione di rivederci, in qualche modo, da qualche parte. Intorno a una tavola, su una sbarra, davanti a un muro…